C’è un pattern ormai così ricorrente da sembrare scritto nel codice genetico della ricchezza:
più diventi potente, più ti convinci che il mondo abbia bisogno della tua verità.
Si parte con una buona idea, magari un’azienda innovativa, una start-up che funziona, un’intuizione fortunata. Da lì in poi il successo cresce, il conto in banca lievita, i riflettori si accendono. Ed è allora che succede qualcosa.
All’improvviso, non ti basta più vendere automobili elettriche o spedire satelliti in orbita.
No. Ora vuoi anche dire al mondo come dovrebbe vivere, cosa dovrebbe pensare, quale futuro dovrebbe desiderare.
La ricchezza non è più abbastanza: nasce il bisogno compulsivo di diventare guida spirituale, architetto del destino collettivo, profeta in t-shirt nera e citazioni di Seneca sparse su X.
È il grande malinteso del successo: “Se ho avuto ragione su un’idea, allora ho ragione su tutto”
La convinzione è pericolosa: il denaro diventa verità, il potere si trasforma in legittimazione morale e chi prova a dire “calma, forse non sei l’unico a sapere cosa è meglio per tutti” viene trattato come uno che non ha capito la visione.
Ma è facile essere visionari quando non devi scegliere se pagare la bolletta o fare la spesa.
È comodo parlare di decrescita felice dal terrazzo della tua villa a Palo Alto.
È semplice dire “abbiamo bisogno di meno oggetti e più esperienze” quando ogni tua esperienza costa quanto lo stipendio annuo di chi ti legge.
E così arrivano i manifesti del futuro, i partiti personali, i sogni per l’umanità tradotti in slogan e startup, nascono app per meditare, community per “ritrovare se stessi”, social network alternativi che promettono “verità”, “libertà”, “autenticità”. Finché non li comprano le stesse multinazionali che volevano superare.
E nel frattempo, la realtà vera resta fuori dal cerchio magico, quella fatta di persone che non vogliono essere salvate, ma ascoltate. Che non hanno bisogno di una visione dall’alto, ma di uno sguardo orizzontale.
Ma la vera rivoluzione è non dover avere tutte le risposte: ciò che manca (a chi ha troppo potere) è infatti l’umiltà del dubbio, l’idea che si possa anche ascoltare senza guidare, imparare senza dominare.
Che (soprattutto) essere brillanti in un campo non ti rende automaticamente il faro etico dell’umanità.
E non è una questione di invidia, ma di equilibrio. Perché ogni volta che uno di questi nuovi “santoni del successo” prende parola, il mondo si riempie di rumore, e diventa più difficile per chi non ha milioni dietro di sé far sentire la propria voce.
Forse dovremmo smetterla di stare dietro a chi non riesce a stare zitto, di chi pensa che ogni privilegio implichi una missione salvifica, di chi fonda partiti per gioco e si prende talmente sul serio da diventare parodia e propaganda insieme.
Perché parodia per parodia, nel dubbio, mi iscrivo al Sardolicesimo Party:
niente app, niente verità rivelate, pecore che ballano, un nuraghe che ascolta e un bicchiere di Cannonau in mano.
Che forse è già abbastanza per non perdere il contatto con la terra e le persone, quelle vere.
