Ieri sera è successo qualcosa di raro e prezioso.

Ed è accaduto in un luogo magico, Sa Mandra ad Alghero, fondato trent’anni fa da visionari originari di Fonni, che è un’autentica casa della memoria sarda: qui si coltiva, si alleva, si trasforma — e ogni pietra, attrezzo, formaggio racconta una storia che è tradizione, ma anche futuro.

Una famiglia che arricchita dalla presenza dei figli naturali, i figli d’anima e quelli che diventano famiglia allargata da vita a qualcosa di più che un un centro di accoglienza rurale: è casa, museo, gesti, sguardi, parole.

E ieri, con Nàrami, con questo ritorno della parola, abbiamo celebrato non solo un libro (Grazia Deledda e il cibo. Da Omero ai giorni nostri”, scritto da Giovanni Fancello e Sara Chessa, edito da Arkadia), ma un modo di guardare il mondo: quello di Grazia Deledda.

Grazie agli autori e alle coinvolgenti letture di Stefano Resmini abbiamo viaggiato e sognato in un mondo che potrebbe sembrare passato ma non lo è, anzi.

In questo libro, la scrittura deleddiana diventa specchio di una civiltà del cibo che vive nel gesto, nel rito, nella comunità — ed è straordinariamente moderna. Ci ricorda che la tradizione non è nostalgia: è quel patrimonio di significato che può e deve dialogare con l’innovazione, per generare futuro.

È un libro che ha il profumo del pane, il suono delle cucine antiche, la luce delle feste di paese.
Ma anche un libro sorprendentemente moderno. Perché Grazia Deledda aveva già capito che il cibo è linguaggio e memoria, rito e resistenza, gesto quotidiano e simbolico.

Un libro dove si parla di identità e il cibo come specchio collettivo.

Il cibo, in Deledda, è molto più che nutrimento: è il mezzo attraverso cui si costruisce e si trasmette l’identità culturale sarda. I gesti quotidiani, le feste, le mani che impastano sono narrazione incarnata: non raccontano solo cosa si mangiava, ma chi eravamo mentre mangiavamo. L’identità non è mai rigida: ogni paese, ogni donna, ogni famiglia la interpreta in modo diverso.

Un libro dove la Tradizione e l’innovazione sono una continuità viva, non un museo polveroso.

La tradizione, per essere tale, deve trasformarsi senza tradirsi. Le tecniche culinarie raccontate da Deledda – cotture lente, fermentazioni, fuoco vivo – sono oggi risemantizzate dalla cucina contemporanea e il libro denuncia la “cucina smemorata” che sacrifica la memoria per la spettacolarizzazione e invita a rinnovare partendo dalle radici. Innovazione sì, ma con coscienza.

Un libro di straordinaria narrazione e comunicazione dove cucinare è raccontarsi.

Deledda non descrive ricette, ma genera storie. La cucina è un linguaggio orale, fatto di gesti e formule imprecise (“unu punzu”, “su chi as”), che custodisce affetti, relazioni e saperi. Cucina e scrittura si fondono: preparare un piatto è raccontare chi si è, senza bisogno d’inchiostro.

Un libro dove la cultura del cibo è rito, corpo, classe.

Nel mondo deleddiano il cibo è rito sacro, linguaggio del desiderio, marcatore sociale. Dolce e pane diventano simboli, la carne distingue le occasioni. Il cibo rivela gerarchie, ruoli, emozioni. È memoria incarnata, esperienza collettiva, passione che plasma il quotidiano.

E infine un libro dove il turismo e la percezione deve essere oltre la cartolina.

Il libro smonta i luoghi comuni sulla Sardegna come isola esotica, selvaggia, senza storia culinaria. Con Deledda si scopre invece una Sardegna interiore, domestica, profonda, fatta di cucine invisibili ai turisti ma essenziali per la cultura. È una cucina antituristica: non costruita per piacere, ma per tramandare significato.

Un libro che parla di noi, oggi, non nostalgico ma profondamente contemporaneo. 

Ci dice che il cibo è comunicazione di sé, una tradizione che è innovazione radicata e che raccontare la cucina significa difendere un’identità vera, non vendibile in confezione turistica.

Un libro necessario, per chi crede che cultura e cucina siano ancora strumenti per restare umani.

La magnifica serata è poi proseguita con una cena con piatti della tradizione sarda con delle contaminazioni della Romagna (dove Grazia Deledda andava in vacanza) con una cura e una attenzione pari solo alla straordinaria eccellenza del cibo e del vino.

Una serata che conserverò nel cuore, grazie a Sa Mandra e in particolare a Maria Grazia Murroccu per la sua sensibilità cosi rara e necessaria in un mondo di cibo senza sentimento.

insopportabile

Ne ho le scatole piene, ma con eleganza.

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