Viviamo nell’epoca del plausibile perfetto. Le immagini sono nitide, i testi fluidi, le voci sintetiche rassicuranti. Tutto è credibile, tutto è immediato.
L’IA, grazie al suo potere combinatorio, ci restituisce contenuti che suonano giusti, sembrano profondi, appaiono autentici.

E noi, spesso, non cerchiamo altro: non la verità, ma qualcosa che basti a farla sembrare tale.
Il verosimile è più comodo del vero: non chiede fatica, dubbio, scontro. È la verità in outsourcing.

E il rischio è che l’umano, abituato a essere servito, smetta di interrogarsi (come ho provato a spiegare su “Restare Umani”, scaricabile qui.

Ma la verità non è efficiente: il vero, per sua natura, è scomodo, ambiguo, imperfetto e soprattutto non è ottimizzato o generabile in pochi secondi.

Il vero richiede esperienza e nasce dalla frattura tra ciò che crediamo e ciò che scopriamo.

Senza dimenticare forse la cosa più importante e cioè che si costruisce nella relazione, non nell’algoritmo.

Ma in un mondo che premia la velocità, la performance e la pulizia e perfezione sintattica, il vero appare obsoleto.
Così ci abituiamo a un surrogato di senso, a una verità in stock, confezionata su misura quando il significato non è riducibile a una funzione predittiva ma rimane un indispensabile atto esistenziale.

Così facendo il pericolo è di precipitare nell’abitudine all’illusione perché il problema non è tanto che l’IA simuli l’umano ma che l’umano smetta di distinguere la simulazione da sé stesso.

Accettare il verosimile come sostituto del vero è come vivere in una casa con finte finestre: ci sembra di vedere il mondo, ma è solo una stampa.
Eppure, ci abituiamo e la minaccia non è l’inganno: è l’accettazione dell’inganno come nuovo standard.

Viviamo (senza rendercene conto) una potente crisi d’identità.

Se infatti la verità interiore viene sostituita da un output accettabile, a cosa serve ancora l’introspezione, la fatica del dubbio e l’autenticità del limite?

Inizia a configurarsi un qualcosa di estremamente pericoloso, una specia di sé algoritmico:

Non siamo più al chi sei, ma al cosa produci, non al come ti senti, ma al come vieni interpretato, non al cosa immagini ma al cosa combini bene con il mondo che abitiamo.

La nostra identità rischia di diventare una media statistica tra i contenuti che consumiamo e quelli che emettiamo. Che è di una tristezza terrificante.

Ma questa è una tendenza o un pericolo inevitabile? Non è inevitabile ma neanche un mostro da vietare e rifuggire.

Contro questa deriva infatti non serve un rifiuto cieco dell’IA ma una nuova alfabetizzazione dell’umano.

È urgente e necessario educare alla differenza tra il vero e il verosimile esaltando il valore dell’autenticità imperfetta.

Bisogna creare spazi dove la verità sia ancora cercata, non simulata e dove esista ancora il diritto al dubbio, al silenzio, alla pazienza e all’errore.

Come?
Con l’arte. Con la filosofia. Con la lentezza. Con anche una sana dose di ignoranza consapevole e serena. Con la parola detta senza voler piacere e incontrare l’approvazione degli altri, con anche gesti apparentemente inutili ma pieni di senso.

L’IA ci sfida non perché sia viva, ma perché ci costringe a domandarci se noi lo siamo ancora.

Perché se smettiamo di cercare la verità dentro di noi e ci accontentiamo del verosimile ben confezionato allora non è colpa dell’intelligenza artificiale ma una nostra resa, una nostra colpa.

insopportabile

Ne ho le scatole piene, ma con eleganza.

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