C’è un pensiero che mi gira in testa da tempo. E ogni volta che provo a lasciarlo lì, risale come la peperonata.

La cultura sta diventando un lusso.

Oggi viaggiare, andare a un concerto, godersi una mostra, uno spettacolo teatrale o anche solo passare una giornata in un luogo “bello” – un parco, una spiaggia ben curata, un paese vivo – ha un prezzo sempre più alto. E quel prezzo, per molti, non è più sostenibile.

Negli ultimi anni, il costo per accedere all’offerta culturale è aumentato in modo costante. Non parlo solo di biglietti o abbonamenti ma anche del “costo ambientale” che gravita attorno alla fruizione del bello: spostamenti, parcheggi, soggiorni, cibo, tempo libero. Un conto complessivo che taglia fuori le famiglie meno abbienti, i giovani precari, i pensionati senza redditi integrativi, chi vive lontano dai grandi centri.
Ho provato a cercare qualche dato:

Secondo l’ISTAT, nel 2022 le famiglie italiane hanno speso in media 32 euro al mese per attività culturali, ma con forti disparità territoriali e di reddito.

Il teatro e la musica dal vivo hanno registrato un crollo della partecipazione post-pandemia: −34% rispetto al 2019, con recuperi parziali e polarizzati nelle grandi città.

Un concerto di un artista mainstream può costare tra i 45 e i 150 euro a persona. Aggiungiamo viaggio, pernottamento, cibo: è un weekend da 250-300 euro. Non per tutti.

E intanto, le tariffe d’ingresso ai musei crescono: gli Uffizi sono passati a 29 euro, il Colosseo a 18 euro, e anche mostre temporanee locali arrivano facilmente ai 10-15 euro. Non sono cifre enormi, è vero ma lo diventano se pensate a una famiglia con figli o a chi deve scegliere tra questo e la spesa settimanale.
Ma il punto non è solo economico. È etico e molto politico.
E allora mi chiedo se è normale che l’accesso al bello – che è parte integrante della nostra umanità, del nostro crescere come persone e cittadini – sia subordinato alla disponibilità economica.

Se è accettabile che un giovane o una famiglia debba rinunciare a un film, uno spettacolo, una visita a un museo per motivi di budget.

Se è sensato considerare la cultura un bene accessorio, quando dovrebbe essere parte del paniere minimo di una cittadinanza piena.

Perché senza accesso al bello, perdiamo senso critico vitale soprattutto in un momento come questo dove l’avvento della Intelligenza Artificiale ci sta facendo perdere i punti di riferimento.
Cultura non è solo intrattenimento: è educazione allo sguardo, al pensiero divergente, alla convivenza per leggere il mondo e (provare) a decifrarne la complessità.

Chi non ha mai visto un Michelangelo dal vivo, chi non ha mai ascoltato un’orchestra sinfonica, chi non ha mai potuto emozionarsi di fronte a un’opera teatrale o al concerto del suo artista preferito può davvero essere messo nelle stesse condizioni di chi cresce nutrito da tutto questo?

In un Paese che vive di contraddizioni, l’educazione al bello dovrebbe essere una missione di Stato. E invece, spesso, resta una voce di bilancio da tagliare, una spesa “non essenziale”.

Eppure ci sono casi virtuosi da cui imparare per agire con concretezza per democratizzare l’accesso alla cultura.
Perché le carte bonus, pur interessanti, valgono per poche decine di migliaia di ragazzi all’anno, e non risolvono l’accesso stabile per famiglie o giovani adulti.

Le iniziative “al giorno” (FAI, Domenica, Notte Musei) sono preziose ma episodiche, senza continuità permanente.

I meccanismi regionale/comunale funzionano, ma spesso sono limitati a pochi territori: serve una rete nazionale coordinata.

Le esperienze dal basso dimostrano come la cultura possa rinascere con comunità, azione civica e spazi pubblici ma non possono sostituire le strategie nazionali.

La cultura accessibile è un diritto collettivo, non solo un’iniziativa da cogliere: serve trasformarla in struttura stabile e politica pubblica.

Il diritto al bello è il fondamento della cittadinanza e non sto parlando di regalare tutto a tutti ma di attuare scelte collettive: decidere che un concerto, un museo, un parco, una spiaggia ben curata siano beni comuni, e non privilegi.

Perché un Paese che non investe in cultura è un Paese che smette di crescere, non solo economicamente ma soprattutto umanamente.

Se il futuro (anche quello che si prospetta con una intelligenza artificiale sempre più presente e determinante) appartiene a chi sa leggere, immaginare e interpretare, allora dobbiamo renderlo possibile anche per chi oggi non se lo può permettere.

Prima che sia troppo tardi.

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insopportabile

Ne ho le scatole piene, ma con eleganza.

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