Lungi da me fare l’opinionista da social show, ma mi terrorizza la leggerezza con la quale oggi si crede di poter disporre della vita degli altri. È come se fosse diventato normale pensare che la vita non valga nulla, che possa essere interrotta per un raptus o un capriccio di possesso. Questa è la radice più inquietante: una totale mancanza di rispetto e un senso di onnipotenza che si fanno sistema, fino a trasformarsi in orrore.

La tragedia non sta soltanto nell’atto estremo, ma nel contesto in cui maturano questi gesti e il vero dramma è che ci stiamo abituando a tutto questo. Ci svegliamo la mattina e leggiamo di un nuovo femminicidio, come se fosse la cronaca di un incidente stradale o di un furto in appartamento. Ci limitiamo a un brivido e a un commento, forse un post indignato e poi torniamo alla nostra vita. L’assuefazione è la più grande vittoria di questa violenza: diventa sfondo, rumore di fondo, statistica, normalità quotidiana.

Eppure, il femminicidio non è mai un fatto privato. Non è la follia di un singolo, ma il sintomo di una cultura che assegna agli uomini un potere di possesso sulle donne. Michela Murgia (quanto manchi) e in tanti lo dissero con lucida chiarezza: il femminicidio non è la follia di un singolo, ma l’ultimo atto di una catena di gesti che hanno a che fare con il potere e con il possesso. Ogni volta che un uomo uccide una donna, non sta agendo soltanto come individuo: sta riproducendo un modello culturale che considera le donne oggetti da controllare, da tenere a sé e da punire quando disobbediscono.

Ma questo non avviene nel vuoto. Viviamo in una società che ha progressivamente sostituito il valore della persona con quello del potere, in tutte le sue forme: potere economico, potere di influenza, potere di dominio. Le dinamiche polarizzanti dei social media e dei media in generale non fanno che amplificare questa deriva: più che spazi di confronto, sono diventati palcoscenici dove conta solo chi grida più forte, l’aggressività viene premiata con visibilità e la complessità ridotta a slogan. In questo meccanismo di contrapposizioni infinite, si perde il senso del rispetto dell’essere umano nella sua interezza e la ricadute nella vita di tutti i giorni sono evidenti nei gesti e nelle azioni quotidiane, non solo nelle piattaforme digitali.

Non tutto è spettacolo che può essere trasformato in contenuto da condividere, in commento da consumare, in polemica da cavalcare e soprattutto non lo è la disponibilità del corpo delle donne, trattato ancora troppo spesso come un terreno di conquista, come uno spazio su cui esercitare un diritto di possesso, anche nei social dove la violenza verbale sotto i post delle donne sono ormai presenza quotidiana tollerata e sminuita. L’orrore del femminicidio nasce anche da qui: dall’idea che il corpo femminile non appartenga alla donna stessa, ma a chi se ne arroga il potere, anche solo con le parole.

La società che accetta questo stato di cose è una società malata. Una società che parla di “raptus” o di “delitto passionale” contribuisce a minimizzare, a nascondere la vera radice: non la passione, ma il potere. Non l’amore, ma il possesso che non sono caso isolato ma una catena strutturale.

Che fare, allora? Non basta l’indignazione episodica, non bastano i minuti di silenzio. Serve educazione al rispetto, fin dall’infanzia. Serve un linguaggio diverso nei media, che smetta di romanticizzare la violenza. Servono politiche pubbliche che sostengano le donne prima che sia troppo tardi, che diano strumenti di autonomia, che proteggano concretamente chi denuncia.
Serve, soprattutto, che tutti noi smettiamo di girare lo sguardo dall’altra parte, perché ogni silenzio è complicità.

Il femminicidio ci riguarda come comunità. Ogni donna uccisa è una sconfitta collettiva. E se davvero non vogliamo assuefarci all’orrore, dobbiamo ricordare che la lotta al femminicidio non è un tema di donne, ma una questione che investe tutta la società.
E non solo quando muore assassinata l’ennesima donna.

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insopportabile

Ne ho le scatole piene, ma con eleganza.

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