La notizia del fallimento di AirItaly non è così drammatica come sembra, inserita in un contesto dove la mobilità (continuità e accessibilità) sono già defunte da un pezzo.
La Sardegna è una meta complicata e costosa da raggiungere e la romantica idea di farla diventare una destinazione turistica è appunto solo una idea romantica.
Siamo pochi, pochissimi abitanti, irrilevanti politicamente negli equilibri di una nazione che si ricorda di questa derelitta isola solo per le campagne elettorali, gli anniversari di Gramsci e Gigi Riva e per il gossip estivo.
Siamo un minuscolo e irrilevante territorio, economicamente povero se non per l’unica cosa che abbiamo di valore, l’ambiente, che ha però un difetto: non rende economicamente.
Viviamo di agricoltura e pastorizia, di terziario, di turismo e soprattutto di sovvenzioni.
Chiusi in un recinto dove gli accessi vengono gestiti dallo stato permettendo monopoli di rotte aeree e marittime imbarazzanti proviamo a sopravvivere, tentando di valorizzare quello che abbiamo.
Ma se in questi anni di Repubblica ci ritroviamo perennemente a essere il parente povero e sfigato che protesta ma poi si cheta e si accontenta di un panino raffermo non possiamo dare la colpa a uno Stato genitore poco attento e anche un po’ crudele.
No, noi ci meritiamo di essere isolati, dimenticati, irrisi.
Perché ogni santissima volta che accade un sopruso al di là della indignazione momentanea entriamo in modalità aereo (sic!) silenziandone le ragioni e i responsabili per comodità e indolenza.
Anche questa volta, dopo le imbarazzanti gestioni degli ultimi decenni della politica dei trasporti, dopo una gestione del turismo più a parole che di investimenti in risorse, dopo una mediocre classe dirigente che purtroppo è fedele rappresentazione dell’elettorato.
Non possiamo vivere di industria, di agricoltura, di pastorizia, di terziario, di turismo: non abbiamo la capacità, non facciamo massa critica, non siamo attrattivi per gli investimenti, non riusciamo a essere competitivi per un elenco infinito di fattori.
Per questo dico, rassegniamoci e facciamo quello che sappiamo fare meglio: lamentiamoci, indigniamoci, protestiamo e urliamo la nostra rabbia.
Per qualche giorno solo, però.
Perché poi dobbiamo ritornare a essere i simpatici sardi che parlano di porceddu, mirto, Ajò e Gigi Riva che beati voi che vivete in Sardegna, i simpatici e poveri parenti sfigati di questa nostra poco materna mamma Italia.
Smettiamola di immaginare futuri e modelli economici rosei, a pensare di poterci sostenere con un modello economico di turismo integrato e sostenibile che punta su ciò che ci ha reso un posto speciale e unico. Smettiamola di pensare che sia possibile quando nella quotidianità accettiamo compromessi che minano questa idea, quando avalliamo scelte politiche e di gestione con modelli e persone inadeguate e dannose, quando per comodità e opportunità non alziamo la voce a urlare una giusta indignazione e pretendere un cambiamento ma invece sussurriamo pensierini acidi e insinuazioni da dietro i muretti a secco social.
Provare a cambiare è provare a crescere, ognuno per il suo ruolo e per la sua capacità di incidere sui processi decisionali pubblici e privati. Provare a cambiare significa avere a cuore la comunità prima che se stessi.
Provare a cambiare significa incaricare politici e amministratori capaci e misurabili.
Per non sentire scuse patetiche e frasi preconfezionate, per non dover subire oltre al tangibile danno anche la verbosa beffa.
E forse è arrivato quel momento nel quale ne avrei le scatole piene ma con pochissima eleganza, lo ammetto.
