Sempre più nelle conversazioni e strategie governative si ipotizza una ripartenza di tutte le attività, complice anche l’esempio di altre nazioni come Israele e la Gran Bretagna che già in questi giorni sperimentano un ritorno alla normalità controllata e prudente.

In questo contesto la Sardegna è ancora indietro ma piano piano si sta allineando ai numeri nazionali e, se pur in zona rossa, intravede nell’estate una ripresa economica e sociale accettabile.

È passato un anno devastante e dal punto di vista economico il sistema è in sofferenza se non in crisi vera e per quanto le prospettive siano positive questo potrà avvenire in un medio periodo, vista la dipendenza della Sardegna dai flussi turistici legati al marino balneare.

Altri due elementi sono interessanti per capire meglio le condizioni al contorno: lo studio relativo alle prime 100 imprese sarde e il percorso di programmazione dei fondi 2021-2027 della Regione Sardegna.

Il primo mostra una Sardegna dipendente dalle grandi industrie “pesanti”, dove svetta fra tutti la raffinazione dei prodotti petroliferi e poi la grande distribuzione con una scarsa rappresentanza (se non con un peso economico poco rilevante) di altre attività.

Il secondo è il processo “partecipativo” legato all’Agenda2030 (#sardegna2030, appunto) dove si programmano i fondi per il periodo 2021-2027 di fondi europei consolidati e al quale saranno agganciati quelli del Recovery Fund (parliamo di miliardi di euro, cifre spaventose). Un processo nel quale le strade di programmazione sembrano già tracciate con poche possibilità di innestare strategie migliorative (mi auguro sinceramente di sbagliarmi).

Un anno è passato e poco o nulla è stato fatto per pianificare un futuro di ripresa, poco o nulla per rimediare a mancanze e inadeguatezze, poco o nulla è stato fatto per mettere insieme gli attori economici e sociali di questo processo industriale quale è oggi considerato il comparto turistico.

A parte il sostegno economico alle attività in difficoltà (pochi danari, maledetti e pure in ritardo) si è deciso di provare a traccheggiare nell’attesa di un ritorno alla normalità turistica del pre pandemia.

Chiariamo subito un concetto, il turismo internazionale, nazionale e locale erano in forte crisi di identità già ben prima del devastante shock del Covid-19: la voglia di conoscenza del mondo amplificata dalla condivisione di esperienze e informazioni grazie al mondo digitale ha riversato sulle destinazioni mandrie di persone alla ricerca di un vissuto spesso precostituito e di seconda mano per interposta esperienza d’altri.

L’overtourism e le “colture” turistiche monotematiche hanno reso le destinazioni dei campi sterminati in preda a turisti – cavallette più che paesaggi ambientali e umani di esperienza profonda per viaggiatori consapevoli.

La pandemia ha messo in pausa tutto questo nella prima fase di lockdown e probabilmente adesso azzererà purtroppo una gran parte degli attori di questo processo che non avranno la forza di ripartire in condizioni di medio periodo.

La cosa più grave è però l’atteggiamento di chi dovrebbe da una parte garantire la sopravvivenza del comparto (industriale, sottolineo) e dall’altra tracciare traiettorie di visione programmatiche per non ricadere negli errori del passato ma anzi progettare un futuro alla luce delle rinnovate e anche nuove esigenze di mercato.

I temi della sostenibilità (tema ampio che non contiene solo gli aspetti ambientali ma anche quelli digitali), del diverso approccio all’esperienza della vacanza, alla frammentazione della domanda, alle necessità ormai imprescindibili come una adeguata connessione con il mondo, al tema della cittadinanza temporanea, del lavoro nomade, dell’ibridazione luoghi – ambienti virtuali anche nel gaming turistico e culturale, questi e mille altri temi che sembrano poco più che argomenti da conversazione per annoiati e supposti esperti di turismo non vengono minimamente posti come elementi di discussione per la revisione strategica delle destinazioni.

In questo quadro generale abbiamo quindi passato l’ultimo anno a discutere di aperture, chiusure, plexiglass sulle spiagge, passaporti, vaccini e tamponi, ristori, coprifuoco, ristoranti e attività all’aperto o no, seconde case e alberghi, investimenti e innovazione senza mai lasciare la conversazione puntuale (anche se non inutile) per salire al livello della progettazione del dopo.

Nessuno scenario ipotizzato mentre tante altre destinazioni hanno avuto come focus esattamente quello per tutta la durata e oggi si ritrovano pronte per intercettare anche con strategie last minute un mercato che non vede l’ora di ritornare a viaggiare anche se probabilmente con altre necessità e motivazioni.

L’Italia, dopo la deprimente oltre che disastrosa gestione del Turismo da parte del ministro Franceschini si ritrova ad avere un ministro dedicato (Massimo Garavaglia) che ha mostrato da subito grande attenzione e ascolto al comparto, nell’attesa che questa dovuta attenzione a un comparto strategico (e industriale, ribadisco) si tramuti in azioni efficaci e con un orizzonte temporale di almeno 6 anni.

Perché al di là delle parole vorrei vedere azioni imperniate su una visione magari condivisa e discussa e non azioni utili solo a garantire l’esistenza politica del turismo.

Potrebbe essere un buon punto di partenza il Piano Strategico del Turismo revisionato e agganciato ai fondi del Recovery Fund (ancora in bozza ma quasi definito) soprattutto per quel salto di qualità che il comparto ha urgenza e necessità di compiere: innovazione dell’offerta come infrastrutture anche digitali, messa a sistema dell’offerta compresa quella dell’extra alberghiero, formazione degli operatori in tutte le categorie, compresa quella politica e amministrativa pubblica.

Non è infatti possibile pensare di innovare un comparto senza partire dalle persone che ne fanno parte.

Passando alla situazione del turismo in Sardegna è assolutamente in linea con quella nazionale, con una visione strategica davvero poco comprensibile, una presenza sui mercati non coordinata ma lasciata agli operatori, alla estemporaneità degli eventi e alla sicurezza che tanto (per il marino balneare) la Sardegna si venda da sola (sic!).

Eppure esiste un Piano Strategico Regionale recente, ci sono i fondi del Recovery Fund che potrebbero essere motore di un cambiamento epocale per il comparto turistico sardo (industriale, nel caso non si sia ancora capito), fondi strutturali per la formazione degli operatori che potevano essere messi in campo già l’anno passato (e potrebbero essere ancora messi) e nella formazione urgente anche dei politici e degli amministratori.

Invece in questo anno si è nicchiato, pensando di ritornare a una situazione prepandemica comoda ma che mostrava già evidenti segni di crisi in una stagionalità di un mese e mezzo di tutto esaurito e di dieci mesi di deserto turistico.

Anni che si parla di provare a valorizzare nuove stagionalità turistiche ma finora l’unica destagionalizzazione efficace è quella dei convegni e delle interviste sulla destagionalizzazione.

Rimane una occasione perduta, per l’Italia, per la Sardegna, per tutte quelle destinazioni che non hanno saputo cogliere l’occasione per poter cambiare e migliorare in un processo che premierà chi invece dimostrerà di averlo intelligente percorso e realizzato.

L’Italia, la Sardegna avrebbero potuto fare meglio o forse peggio: ora però, onestamente non importa granché. Le lacrime di coccodrillo servono a poco, di chiunque sia la colpa.
Importa capire il perché spesso ci chiediamo cosa possono fare lo Stato, la Regione, il Comune, l’Ente Pubblico per poter cambiare i processi, creare una visione per poi far vivere ai turisti la migliore esperienza possibile per le loro attese e quasi mai ci chiediamo però cosa possiamo fare noi.


Azioni semplici, come non farsi passare sempre sopra le imbarazzanti visioni grette e mediocri, contrastarle provando però a proporne di alternative in un processo costruttivo e utile, condiviso e collaborativo.

Contestare la politica con progetti alternativi che sono difficili da essere liquidati come una contestazione solo politica.

Aggregare persone, comunità di interessi, creare reti di relazioni, aggiornarsi, provare a cambiare l’inerzia con la presenza e la competenza e non con le chiacchiere urlate o con le accuse dietro i muretti a secco social, nascosti dietro le chat a sparlare delle istituzioni senza mai avere il coraggio di discuterne in chiaro, come è diritto di ogni cittadino che non trova adeguate le politiche e l’amministrazione della cosa pubblica per la sola paura di perdere le sicurezze consolidate o le opportunità future.

Viviamo un cambiamento epocale con l’opportunità di investimenti (probabilmente gli ultimi di questo ordine di grandezza): essere assenti o peggio lasciar decidere senza quantomeno far sentire la propria opinione, le proprie attese, la propria giusta indignazione ma soprattutto la propria idea concreta di futuro è stupido e autolesionista.

Non si può vivere ogni giorno in servizio illimitato permanente nel contestare le cose che portano a scarsi cambiamenti: perché se continuiamo a dire che non cambia nulla è forse perché la colpa è (forse) anche un po’ nostra.

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insopportabile

Ne ho le scatole piene, ma con eleganza.

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